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giovedì 29 marzo 2012

Se la CGIL è libera di licenziare

Se la Cgil è libera di licenziare

28 marzo 2012 POLITICA
 
Licenziata dalla Cgil dopo che le  ripetute discriminazioni sul posto di lavoro l'avevano ridotta all'anoressia e alla depressione, costringendola a rimanere a casa per curarsi. Dopo avere ripercorso, attraverso un  atto di citazione in giudizio, la storia professionale e le angherie subite dalla signora Simona Micieli da parte della Cgil di Cosenza - a  maggio ci sarà la prima udienza davanti al giudice di lavoro - verrebbe voglia di suggerire al premier Mario Monti una nuova possibile modifica dell'articolo 18:  abolirlo per le grandi aziende e il comparto pubblico, introdurlo ex novo per i sindacati, i partiti e gli enti ecclesiastici. La storia della donna e il documento che l'Opinione ha potuto leggere si trovano entrambi sul blog dei "licenziati dalla Cgil" (licenziatidallacgil.blogspot.it).
La Cgil della Camusso e dei tanti "camussini" provinciali sparsi in tutta Italia vive della reputazione, per ora intatta, di essere il sindacato "duro e puro", per eccellenza, senza se e senza ma, dalla parte dei lavoratori.
Tranne quelli alle proprie dipendenze. Paradossalmente i migliori argomenti a favore del mantenimento in vita dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori vengono dai comportamenti con i propri dipendenti da parte dei vertici sindacali italiani, nella fattispecie della Cgil. Che, profittando invece della non applicabilità di quella norma per partiti, sindacati ed enti riferibili alla chiesa cattolica, hanno sempre dato il peggio di sé nelle vertenze con i lavoratori. Come il caso della povera signora Micieli dimostra.
L'intero sito curato dai licenziati della Cgil è un urlo contro l'ipocrisia di chi a parole si erge a paladino dei lavoratori, purché a casa degli altri. C'è la discriminata sessualmente che lascia il proprio testamento in un video, c'è chi minaccia gesti inconsulti perché censurato dai media. E c'è anche chi come la signora Simona mette a disposizione in un pdf l'intero ricorso al magistrato del lavoro di Cosenza. La Cgil ha tentato anche le strada del ricorso alla magistratura penale o civile per difendersi dalla marea di accuse di mobbing che rischiano di travolgerla. Intentando cause di diffamazione. Ma sinora senza successo.
Il 16 settembre 2011 sul portale appariva un trionfante comunicato dell'ex sindacalista Cgil Tommaso Fonte, citato per danni per ben 100 mila euro da parte del suo ex datore di lavoro, la Cgil di Ragusa. «In data 16.04.2010  la Cgil di Ragusa in persona del suo legale rappresentate Giovanni Avola - si leggeva -  mi notificava un atto di citazione con richiesta di risarcimento danni per euro 100.000  per le dichiarazioni da me rilasciate successivamente  alla mia epurazione dalla  stessa Cgil dopo 27 anni di militanza e di dirigenza e dopo essere stato, da ultimo, il segretario generale uscente della stessa Cgil di Ragusa». Risultato? Il 6 settembre 2011 il tribunale di Ragusa, giudice Vincenzo Saito «definitivamente pronunciando, disattesa ogni istanza contraria eccezione e difesa, rigetta la domanda in premessa della Cgil camera del lavoro di Ragusa in persona del suo legale rappresentante nei confronti di Fonte Tommaso e  la condanna al pagamento, in favore di quest'ultimo,  di euro 8.219,25 per spese processuali».
Il prossimo 12 maggio si celebrerà la prima udienza davanti al giudice del lavoro di Cosenza per il caso di Simona Micieli. Che nella propria memoria racconta così quasi sei anni di vessazioni: «La signora Micieli ha svolto attività lavorativa di fatto alle dipendenze della Cgil di Cosenza, presso la sede distaccata di San Marco Argentano a decorrere del 3-11-2003 espletando continuativamente il seguente orario di lavoro: dalle 8.30 alle 12.40 e dalle 15.30 alle 19.00 dal lunedì al venerdì, nonché dalle 9.00 alle 12.30 il sabato». Il contratto però era a progetto e prevedeva all'inizio 250 euro al mese a titolo di rimborso spese. E infatti gli avvocati dello studio legale di Giovanni Caglianon rilevano nella memoria che «sebbene il datore di lavoro non abbia mai inteso stipulare alcun contratto né abbia mai provveduto alla copertura assicurativa e previdenziale, previste per legge, il rapporto di lavoro si è protratto senza soluzione di continuità alle dipendenze della Cgil di Cosenza sino alla data del 31 gennaio 2008». Dopo quella data, sempre leggendo la memoria del legale della donna, la Micieli si ritrova «convocata dal coordinatore regionale del servizio Inca Cgil, Marcello Cirillo», il quale «alla presenza del direttore della sede Inca Cgil Sibari-Pollino, il signor Franco Pignataro, comunicava l'intendimento della confederazione sindacale Cgil (di Castrovillari però) di stipulare con la lavoratrice un regolare contratto di lavoro, part time». Il problema però era che la donna avrebbe anche dovuto trasferirsi, senza poter più contare sull'aiuto familiare. Inoltre, mentre lo stipendio fu effettivamente quello del part time - meno di 700 euro al mese - l'orario rimase quello di un full time. Insomma, prima uno sfruttamento da contratto da progetto per cinque anni, poi un finto part time. Nella memoria di circa 31 pagine in cui la Cgil viene citata in giudizio, con richieste risarcitorie prossime ai 300 mila euro per il danno biologico, esistenziale, morale, materiale e lavorativo, si racconta anche come la donna, di fatto intimidita dai suoi datori di lavoro, inizia ad ammalarsi di depressione e di anoressia. Così le assenze dal lavoro si intensificano, fino a dare alla Cgil il pretesto per il  licenziamento, che avviene in data 3 agosto 2009.
A quel punto alla donna non rimase che tentare la strada della causa di lavoro. Di fatto però, dato che ai sindacati l'articolo 18 non si applica, anche se "lottano" e scioperano affinché rimanga in vigore per le altre imprese e il pubblico impiego, la posizione della signora Micieli non è delle più facili. Perché se non riuscirà a dimostrare in giudizio di essere stata vessata e discriminata molto probabilmente dovrà farsene una ragione. Magari, in uno dei tanti dibattiti televisivi da talk show addomesticati della tv pubblica o privata , qualcuno alla Susanna Camusso una domandina su questi dipendenti licenziati dalla Cgil dovrà pure fargliela prima o poi. Anche perché  sono in molti a essersi stufati di questo predicare bene razzolare male. Perché, come se non bastasse, un dirigente sindacale locale della Cgil, su cui l'organizzazione nazionale della Camusso ha scaricato l'intera responsabilità anche nella memoria difensiva, è stato rinviato a giudizio per violenza privata nei confronti della signora Micieli.
di Dimitri Buffa da L'Opinione di giorno 28 marzo 2012

lunedì 26 marzo 2012

La CGIL pretende l'articolo 18 ma non per i suoi dipendenti

La Cgil pretende l'articolo 18 ma non per i suoi dipendenti

A parole difende il posto fisso, intanto lascia a casa i dipendenti anche senza giusta causa. Una legge del 1990 permette che la legge non venga applicata

di -

Roma - Da qualche tempo si sono messi tutti insieme e hanno aperto un sito internet, licenziatidallacgil.blogspot.it. Non è soltanto uno sfogo. La bacheca raccoglie atti giudiziari, con ricorsi e addirittura una sentenza di condanna della Cgil: la prima storica decisione di un tribunale, si sottolinea, contro il sindacato guidato da Susanna Camusso. L’ultimo documento pubblicato è il ricorso di una ex dipendente della Cgil di Cosenza, al servizio per anni a tempo pieno nonostante un contratto da part time da 670 euro (come si legge nell’atto di citazione) e poi licenziata dal sindacato.
E’ proprio su questo blog che, dalla voce degli epurati, si sottolinea il paradosso: l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori «come tutti sanno non si applica ai lavoratori della Cgil», ricorda il sindacalista che ha vinto la sua causa a Ragusa, Tommaso Fonte. È proprio così: la Cgil che minaccia lo sciopero generale contro le modifiche all’articolo 18 in realtà non è tenuta per legge a reintegrare i suoi lavoratori licenziati senza giusta causa, come invece sono obbligate a fare tutte le aziende italiane con più di 15 dipendenti. I lavoratori sindacali non sono infatti coperti dall’articolo 18. La legge che lo stabilisce è la numero 108 del 1990. Ecco cosa dice l’articolo 4: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori «non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto». Il nodo è sempre qui: quell’espressione «senza fini di lucro» dietro alla quale sono tutelate associazioni organizzazioni che tutto sono fuorché opere pie, sindacati compresi, che vantano sedi in tutto il mondo dove si svolgono consulenze non gratuite, oltre a godere di imponenti patrimoni immobiliari.
Ma quello che sconcerta è la contraddizione: i sindacati non hanno l’obbligo di reintegro per il lavoratore licenziato senza giusta causa, tantomeno se il licenziamento è avvenuto per motivi discriminatori. La Cgil sembrerebbe quindi combattere una guerra, quella sulla sacralità dell’articolo 18, che in fondo non la riguarda per niente.
Il caso di Simona Micieli è il più recente registrato dal blog dei licenziati della Cgil: nella sua denuncia, pubblicata sul sito due giorni fa, viene sottolineato come, prima di licenziamento dopo mesi di malattia, la Cgil le aveva proposto «il versamento della somma di 70mila euro in cambio delle dimissioni e del silenzio».
Il 22 marzo il comitato dei licenziati Cgil ha invece scritto una dura condanna contro il sindacato, proprio legata alla recente battaglia sull’articolo 18: «Condividiamo pienamente e fortemente la posizione della Cgil sulla riforma del mercato del lavoro, precisamente su due punti: licenziamenti discriminatori, licenziamenti disciplinari - si legge nella lettera - Nel contempo chiediamo alla Cgil di spiegarci perché questa posizione non vale per i suoi dipendenti e i suoi licenziati. Questo è il motivo per cui non possiamo, nonostante il momento delicato, restarcene in silenzio. Non è giusto predicare bene, chiedere consensi e razzolare male».
La lista dei licenziati che hanno presentato ricorso contro il sindacato è lunga. C’è Anna Maria Dalò di Andria, licenziata dal patronato mentre era seriamente malata, poi reintegrata dopo che il suo caso arrivò al congresso nazionale di Rimini, ma poi costretta a dimettersi perchè non voleva lavorare nella stessa sede dove si era sentita umiliata, ora in causa su Tfr e pensione con la Cgil.

O c’è la storia di Romina Licciardi, licenziata dalla Cgil di Ragusa dopo dodici anni di servizio, di cui, due, denuncia, in nero, dal 1998 al 2000 e gli altri con contratto part time anche se lavorava a tempo pieno. Ha preso coraggio anche Giovanni Sapienza da Catania, e ha presentato ricorso contro la Cgil, dalla quale è stato lienziato «in tronco», scrive, dopo 18 anni di lavoro senza contributi previdenziali.

Uno dei promotori del comitato dei licenziati è appunto Tommaso Fonte, che era arrivato a diventare segretario della sede diRragusa, «epurato», come lui stesso scrive, «dopo 27 anni di militanza», denunciato dalla stessa Cgil per 100mila euro di danni per le sue dichiarazioni ritenute diffamatorie contro il sindacato e poi risultato vincitore della causa, che ha condannato la Cgil a pagargli 8200 euro di spese processuali.

sabato 24 marzo 2012

RICORSO DI SIMONA MICIELI CONTRO CGIL DI COSENZA




















 

 






Il dietro le quinte dell'articolo 18....



Comunque vada il dado e' tratto....l'articolo 18 cosi' come generazioni di lavoratori e lavoratrici lo hanno conosciuto in questo Paese non c'e piu'. Il punto piu'avanzato della conquista sociale dello statuto dei lavoratori, della dignità del lavoro, della liberazione dall'assoggettamento padronale, di decenni di lotte di uomini e donne, dalla morte dei braccianti di Avola, alla stagione del movimento studentesco, alla occupazione delle fabbriche e al Governo Scelba, fino alla conquista dello Statuto dei lavoratori, e' morto per sempre. Alla fine la" manutenzione", e' stata fatta e l'esito della manutenzione e' la fine del diritto del lavoro e nel lavoro.
Un manipolo di uomini piccoli, inetti ed insignificanti della politica postmoderna, fatta spesso di tessere accaparrate, comprate e vendute, di consenso manipolato e artefatto, di cordate di corrutori e di facilmente corrompibili hanno realizzato tutto questo.  E qualunque cosa accadra' da ora in avanti,  la situazione non sara' piu' recuperabile. L'accordo era gia' stato raggiunto da Abc e tutto che è accaduto dopo, altro non era che una ignobile pantomima. Una pantomima che peraltro con il disegno di legge, anzichè il decreto legge, qualcuno gia' spaccia per grande vittoria(sic.) e che purtroppo continuerà ancora per qualche mese. Nessuna trattativa (qualcuno dovrebbe spiegarmi come e' possibile fare una trattativa sindacale senza un testo su cui discutere) solo una specie di pathos popolare artatamente alimentato dai media manipolati ad arte per far credere qualcosa che non esisteva e che non e' mai esistita:una trattativa. 

L'accordo era gia' stato raggiunto da tempo e si chiudera' con l'invito al giudice del lavoro di decidere, in tutti i casi, la sorte del diritto e dei lavoratori. Nello specifico: il licenziamento disciminatorio rimane inalterato come principio, bene. Ma le altre due tipologie, disciplinare ed economico potranno vedere l'opzione, in assenza di giusta causa accertata dal magistrato, tra reintegra e indennizzo. In precedenza in caso di licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo il giudice provvedeva alla reintegra, oggi potra' scegliere anche per il risarcimento economico con l'aggiunta del licenziamento per motivi economici. Ovviamente in nessun caso il licenziamento individuale avviene esplicitamente per motivi discriminatori, ma spesso viene mascherato da motivi disciplinari con la giusta causa o con il giustificato motivo oggettivo ma l'onere della prova (cioe' se quel licenziamento era effettivamente disciplinare) ricadeva sul datore di lavoro. Adesso l'onere della prova si inverte (sara' sempre il lavoratore che richiede la reintegra a dover dimostrare la discriminatorietà) e quindi se un licenziamento e' fatto per motivi disciplinari o economici ma nasconde un motivo discriminatorio, l'onere della prova ricadra' sempre sul lavororatore e poiche' sara' sempre piu' difficile dimostrare, specie dopo questa riforma e di questi tempi la discriminatorieta', il licenziamento, sebbene illegittimo, si concluderà, almeno di clamorose situazioni, sempre con un indennizzo. In pratica con un indennizzo tra le 15 e le 27 mensilita'(cioe' tra 15 e 30 mila euro) il padrone potrà definitivamente liberarsi dei rompipalle di turno. Il rompiballe verra' licenziato, in quanto rompiballe rimarra' disoccupato e tutto fila liscio in allegria. 
Con un po' di sarcasmo e autoironia, tutti saranno da ora in avanti come i licenziati dalla Cgil a cui come e' noto non si applica l'articolo 18 poichè se il licenziamento e' discriminatorio (come nel caso di Romina Licciardi) dovra' essere il lavoratore a dimostrarlo. Grande successo della signora in "rosso", che ha tanto lottato finendo per estendere le sue regole a tutto il mondo del lavoro, quindi niente articolo 18 per nessuno. Così e' stato discusso, così è stato deciso, e così, purtroppo sara' alla fine del percorso parlamentare, con il brindisi finale degli attori del teatrino. Tutto il resto è folkore e un po' di fumo negli occhi, come e' stato per le pensioni.... nient' altro.  Addio vecchio e caro articolo 18.
Tommaso Fonte

giovedì 22 marzo 2012

Contro la riforma del mercato del lavoro e per la coerenza

Condividiamo pienamente e fortemente la posizione della CGIL sulla riforma del mercato del lavoro precisamente su due punti " licenziamenti discriminatori, licenziamenti disciplinari". Nel contempo chiediamo alla CGIL DI SPIEGARCI PERCHE' QUESTA POSIZIONE NON VALE PER I SUOI DIPENDENTI E I SUOI LICENZIATI.
QUESTO E' IL MOTIVO PER CUI NON POSSIAMO, NONOSTANTE IL MOMENTO DELICATO, RESTARCENE IN SILENZIO. Non è giusto predicare bene, chiedere consensi e razzolare male........
Chiediamo a tutti i lavoratori che in questo momento combattono contro questa riforma solidarietà e comprensione.
Il Comitato

domenica 11 marzo 2012

La lettera censurata di Donatella Bruni

Riceviamo e pubblichiamo la riflessione di Donatella Bruni su 8 marzo e CGIL. Ricordiamo che la compagna Bruni è stata allontanata dalla CGIL e dal suo incarico per "colpa" della sua relazione (sì avete capito bene) con un sindacalista della UIL. 

 Donatella Bruni ci scrive:

Nei giorni in cui le rivoluzioni arabe stavano dominando il web, molti hanno messo in evidenza come senza questo strumento di democrazia sarebbe stato molto più difficile per quei giovani far sapere al resto del mondo ciò che stava succedendo nel loro Paese e quindi sconfiggere la “censura di stato”.
Proprio come è successo nel Nord Africa mi trovo oggi a dover pubblicare su internet quello che la censura di certi giornali asserviti si sono rifiutati di pubblicare.
La stampa calabrese alla vigilia dell’8 marzo ha concentrato gran parte della sua attenzione sulla donna vittima della ‘ndrangheta. E’ notorio che non è solo questo il problema per le donne meridionali e la sottoscritta, che è stata anch’essa “vittima” della condizione femminile in una organizzazione che, a parole, appare come la paladina delle vittime dell’ingiustizia, ritenendo di dover strappare il velo di ipocrisia che copre tutto e che travisa le cose facendole apparire per quello che non sono, aveva deciso di inviare una nota al direttore del quotidiano della calabria. Quel giornale aveva indirizzato il dibattito in quel senso con la campagna “Tre foto e una mimosa”, ma ho scelto quella testata anche perché aveva ospitato, giorni prima, una articolata riflessione di quella stessa organizzazione su cui io puntavo l’indice.
Ebbene quel giornale, per oltre due settimane, ha trovato modo di dare spazio a tutte le riflessioni e le dichiarazioni sul tema e sulla campagna in atto, per la verità tutte meritevoli di quello spazio, ma non ha ritenuto di dare voce alla mia riflessione forse perché andava ad irrompere con troppa irruenza nel mieloso clima che si era voluto creare o forse perché il Direttore del giornale nella giornata dell’8 marzo sarebbe stato ospite all’iniziativa di quella organizzazione, o forse perchè temeva di finire come il giornalista del TG1, querelato per aver osato informare.
Ritenendo invece che ai lettori debba sempre essere data la possibilità di avere una informazione completa, anche se alcune volte può fare male, propongo qui le riflessioni che quel giornale evidentemente ha ritenuto opportuno censurare, chiedendovi di pubblicarle.


Riflessioni sull’8 marzo 2012 censurate dalla stampa:
Per superare l’amarezza che ancora qualche volta mi coglie, avevo deciso di lasciarmi definitivamente alle spalle la triste vicenda che lo scorso anno mi ha vista coinvolta, mio malgrado, in una umiliante storia di ordinaria discriminazione, ma un moto di rabbia ed un irrefrenabile senso di disgusto mi hanno assalita leggendo dalle pagine del vostro quotidiano che la CGIL, la stessa che si è resa protagonista, nei miei confronti, di un atteggiamento da Santa Inquisizione di medievale memoria, riservandomi un sommario processo ed una ancora più sommaria condanna, la stessa che con quella vicenda ha scritto una pagina triste e amara nella cronaca delle conquiste femminili, oggi si erge a paladina delle donne vittime di discriminazione, si interroga sui percorsi a difesa dei loro diritti, ne denuncia la prevaricazione, dice di volerne salvaguardare l’uguaglianza e le pari opportunità, e di voler lottare per l’ emancipazione femminile.
Allora ho preso carta e penna decisa a gridare il mio basta a questa fiera dell’ipocrisia ed anche per dire ciò che per pudore finora avevo riferito solo sommariamente.
Le parole contenute nel programma della CGIL per la giornata della donna, oggi suonano più che mai vuote ed ipocrite alle mie orecchie. Orecchie ferite ed umiliate da espressioni mortificanti profferite da uomini di quell’organizzazione nei miei confronti: “la segretaria la dobbiamo cacciare perché è una p…” oppure “…gli iscritti alla categoria (tutti maschi naturalmente) si vergognano della segretaria perché sta con … e quindi non può più essere autonoma”
Orecchie ancor più umiliate dall’assordante silenzio delle tante donne dell’organizzazione che in quei giorni non hanno neppure avuto il coraggio di incrociare il mio sguardo, ben consapevoli del fatto che si stesse consumando l’ennesima ingiustizia e discriminazione maschilista verso una donna che avevano stimato ed ammirato fino al giorno prima. Soltanto una di loro ha avuto il coraggio di accennare una pseudo giustificazione che la dice lunga sul clima che si respira in quella democratica organizzazione, “… è la cosa più difficile che abbia mai dovuto fare nella mia vita ma ti voterò contro perché ‘tizio’ mi ha detto che devo farlo“.
Molte sono rimaste in silenzio, hanno voltato lo sguardo altrove con quella colpevole indifferenza che Bertold Brecht ci ricorda nella sua memorabile poesia sulle persecuzioni  naziste del secolo scorso, “… un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Ma si sa,  se non stanno “prendendo” te è meglio non esporsi e seguire il gregge. Dov’erano le tante responsabili e le aderenti dei coordinamenti donna o per le pari opportunità di cui pullula quell’organizzazione? Si muovono forse su imput di qualche uomo o solo se la donna da tutelare è abbastanza sponsorizzata e protetta?
Ci sono state poi quelle donne che la mia “messa al rogo” l’hanno compiuta con lucidità perché ciò  avrebbe fatto guadagnare loro una adeguata ricompensa, premio ravvisabile in alcune rapide “promozioni” che sono seguite alla mia sfiducia.
Alcune, poche per la verità, mi sono state vicine e di grande conforto, per fortuna ci sono ovunque donne coraggiose ed  incorruttibili, queste però, come spesso avviene, non avevano ruolo o postazione strategica nella stanza dei bottoni e la loro vicinanza non ha avuto alcun effetto sul risultato finale, comunque, per il loro essersi schierate, hanno dovuto subire la scomunica generale e sicuramente non troveranno grandi agibilità in futuro.
E che dire dell’assoluta indifferenza della segretaria nazionale Vera Lamonica che dal Quotidiano viene indicata quale simbolo dell’impegno civile? Proprio colei che in questa avventura confederale mi aveva chiamata, chiedendomi di impegnarmi a ricostruire la CGIL vibonese e sulla mia perplessità a lasciare un lavoro a cui tenevo tantissimo ha fatto leva, per convincermi, sulla solidarietà femminile. Quando un po’ di solidarietà avrebbe dovuto mostrarla lei nei miei confronti, si è eclissata. Forse non riteneva utile spendersi per chi era così lontana dai suoi ormai alti orizzonti e poi “non intendeva più occuparsi delle squallide faccende calabresi”, anche se queste si stavano rovesciando su una persona che magari non le meritava. Ora ha deciso di scendere “quaggiù in Calabria”,  tra noi comuni mortali a rinfrancare, con la sua presenza, l’universo femminile?
Ma delle donne dell’organizzazione quella che più delle altre è stata per me fonte di delusione è lei, la segretaria generale, Susanna Camusso, prima donna alla guida di un sindacato italiano, qualcosa doveva significare! Beh, nonostante fosse stata messa dettagliatamente a conoscenza di ciò che si stava consumando in questa terra lontana, lei ha lasciato che una vicenda dal sapore fortemente discriminante verso una donna fosse interamente gestita da un uomo, componente della sua segreteria. Il Torquemada della situazione che, ad una precisa domanda, rivoltagli da un noto giornalista calabrese sulla mia “epurazione”, è riuscito solo a balbettare frasi fatte, in sindacal-burocratese, che hanno annichilito chiunque le abbia udite.
Che senso hanno certe considerazioni, contenute nella presentazione dell’iniziativa, di per sé condivisibili, se però le stesse donne che le esprimono consentono che logiche tutte maschili ricaccino in ruoli subalterni o minori la donna anche quando questa dimostra di essere capace di svolgere un incarico primario; logiche che la relegano da protagonista, con pari dignità di ruolo rispetto all’uomo, a spettatrice che fa da contorno al protagonismo maschile. Un po’ di coerenza sarebbe auspicabile! 
Mi chiedo e vi chiedo, queste sono le donne che dovrebbero difendere o tutelare la dignità di altre donne? Di grazia mi sapreste dire come? Con una commemorazione, con la celebrazione di una giornata, con tante belle parole spese in pubblico prima di tornare alla ordinaria e privata indifferenza o complicità maschilista?
Si sostiene che l’intenzione della loro iniziativa del prossimo 8 marzo sia quella di ricordare tre donne che hanno avuto il coraggio di ribellarsi, Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce, “vittime di un contesto in cui il rispetto delle regole non trova strada o cittadinanza”.
Ritengo che non si possano onorare solo a parole le battaglie delle donne, ma agendo nei fatti per far si che sempre meno persone debbano subire umiliazioni e ingiustizie solo perché donne.
Allora diventa assurdo, anzi una beffa, che una organizzazione porti agli onori, con tanto di consegna di attestato-premio, un uomo indagato per molestie sessuali, in barba allo statuto “democratico” di queste “democratiche” organizzazioni che evidentemente è intriso di ipocrisia e conformismo, utile solo a lavarsi le coscienze. Ebbene, così non si stanno onorando nè quelle né tante altre donne.
Né serve ricordare che in una società come la nostra “ognuna di noi è Maria Concetta, Lea o Giuseppina, se vive in un contesto in cui il rispetto delle regole non ha spazio o cittadinanza”, bisogna crederci davvero a questa affermazione ed essere pronte a reagire con la solidarietà, la vicinanza, la presa in carico, non voltando lo sguardo altrove o peggio pensando “se l’è cercata lei”. Io so cosa si prova quando ti additano, quando le regole che dovrebbero tutelarti “saltano”, quando sei sola e devi combattere contro chi ti punta l’indice perché non stai al gioco, perché non pieghi la schiena, perche hai l’arroganza di non voler accettare o subire un'ingiustizia. E’ una mentalità tutta meridionale, che non è solo prerogativa degli ambienti malavitosi, quella che mal sopporta chi tiene la schiena dritta, chi si ribella ai soprusi, e così chi denuncia e pretende giustizia diventa il nemico da combattere, l’appestato da tenere lontano, il male da espellere immediatamente prima che infetti con le sue “pretese di giustizia” l’ambiente sano e democratico delle tante teste chine.
Si può uccidere in molti modi una persona: fisicamente, la ‘ndrangheta, se ti ribelli, ti scioglie nell’acido; o psicologicamente, le organizzazioni cosiddette democratiche e progressiste ti creano il vuoto attorno, ti etichettano come non uniformata, come diversa e quindi sbagliata e così uccidono i tuoi ideali, le tue passioni, le cose in cui credevi.
In fondo è proprio vero che in Calabria “per una donna vivere la propria normalità” è molto difficile sia per il contesto criminale che per l’arretratezza culturale delle nostre realtà, ma il dramma è che tutto questo non potrà mai cambiare finché ci si limiterà a proclami ipocriti e di facciata.
Noi donne dovremmo imparare a restare meno indifferenti davanti ai soprusi quotidiani perpetrati verso altre donne, dovremmo portare nel nostro agire quotidiano, a tutti i livelli, la nostra differenza dell’essere donne e quindi conseguentemente non comportarci come gli uomini. Non dovremmo mai essere disponibili a sacrificare la dignità di un’altra donna (e possibilmente nemmeno quella di un altro uomo) per ottenere un tornaconto personale o una carriera più facile, questo modus operandi lasciamolo agli uomini, lo fanno da una vita e sono sicuramente più bravi di noi.
Poi, non dovremmo permettere mai che sia un uomo a condizionare le nostre scelte politiche, le quote di genere sono umilianti per noi donne solo se permettiamo ad un potere maschile di celarsi dietro quella quota.
Solo coloro che sono pronte a questa sfida e non avranno consentito che una donna, una qualsiasi donna, venga sacrificata da logiche maschiliste potranno ergersi a paladine della dignità femminile.
Le altre abbiano il pudore di tacere, anche in memoria delle tante donne coraggiose che nella nostra Calabria hanno combattuto ed ancora combattono contro un male assoluto come la ‘ndrangheta, pagando per questo un prezzo altissimo.
 Donatella Bruni

Ex dipendente Cgil licenziata per malattia scrive alla Camusso

ANDRIA - «Porterò la mia battaglia politica, pubblica e giudiziaria fino in fondo, forte delle ragioni legali, morali e materiali che mi hanno spinto a ribellarmi la prima volta e poi a lasciare il posto di lavoro per non chinare la testa, e anche se ora, a 51 anni, sono disoccupata, combatto la malattia, non ho diritto a pensione o altro trattamento, grazie alla Cgil, posso sempre raccontare ai miei figli gli stessi principi e la stessa storia di vita, valga per me o per altri, posso sempre con orgoglio mostrare la coerenza fra le battaglie per altri lavoratori e per me stessa e soprattutto posso insegnare loro a difendersi, a mantenere la dignità di persone e la loro autonomia di pensiero, a essere liberi, cose che ho imparato nella sinistra quando questa esisteva, e a mie spese quando è scomparsa».

E’ lo stralcio di una lettera inviata da una lavoratrice, ex dipendente della Cgil, alla segretaria generale, Susanna Camusso, lamentando di essere stata costretta a lasciare il suo posto di lavoro, senza riuscire ad ottenere quanto le sarebbe spettato di diritto.

La donna si chiama Anna Maria Dalò, la sua storia divenne nota qualche anno fa perchè venne licenziata dopo aver lavorato per 25 anni nel patronato Inca della Cgil ad Andria. Fu licenziata dal segretario provinciale, Liano Nicolella, nella primavera del 2010: secondo Nicolella, si era assentata ingiustificatamente dal lavoro nei mesi precedenti mentre invece la donna era assente per malattia, un cancro alla tiroide, assenza per la quale il certificato medico era stato regolarmente consegnato. La questione rimbalzò al congresso nazionale della Cgil di Rimini: i vertici disposero che Nicolella si dimettesse e che Dalò fosse reintegrata.

Intanto la dipendente aveva denunciato il sindacato per stalking, mobbing e diffamazione e chiesto di essere trasferita altrove, perchè – afferma – “non potevo tornare a lavorare nello stesso luogo e con le stesse persone che da un giorno all’altro avevano iniziato a non rivolgermi la parola, come se non mi conoscessero, che mi avevano voltato le spalle e colpito nel momento più difficile della mia vita».

«Pochi giorni prima di riprendere servizio, a fine 2010, chiamai – racconta Dalò – il segretario regionale Forte, il quale mi rispose che il sindacato non era sotto processo e che non c'era possibilità di andare a lavorare altrove».

Anna Maria Dalò, nonostante fosse stata reintegrata, si dimette perchè non se la sente di tornare a lavorare nello stesso posto dal quale era stata allontanata. Parte del suo Tfr lo ha ottenuto a colpi di carte bollate, ma la pensione non le spetta e, stando a quanto le ha risposto la Cgil, neppure la somma calcolata quale adeguamento fra mansione svolta e inquadramento contrattuale.

«Ho sempre svolto un lavoro importante, occupandomi – dice – di infortuni, cause di lavoro, questioni delicate, per le quali esiste una categoria e un inquadramento contrattuali ben precisi, invece ho scoperto che da busta paga risultavo essere alla stregua di un portinaio, autista, qualcuno che svolgesse funzioni che non richiedevano alcuna qualifica professionale». Questo però, Anna Maria Dalò, lo ha scoperto solo dopo. «La mia è una battaglia di principio – sottolinea – e fra i miei diritti vi è anche quello di ricevere tutto quanto mi era stato illecitamente negato in tutti i miei anni di servizio a 1.000 euro al mese».

Il sindacato provinciale e regionale le risponde che non le spetta nulla, la storia è chiusa. E’ per questo che l’ex dipendente scrive a Susanna Camusso e le racconta ogni cosa. La risposta inviata dagli avvocati del sindacato è stata che la Cgil nazionale e quelle territoriali sono cose distinte. Argomentando e motivando per legge che così non è, Dalò scrive nuovamente al numero uno di Cgil. «Voglio solo ricordare che un sindacato è un soggetto che svolge una funzione pubblica - spiega Dalò – e che per questo, anche il patronato per cui ho lavorato, percepisce fondi pubblici, utili anche a pagare gli stipendi. I miei stipendi non sono stati quelli giusti, dove finiva quel denaro pubblico? Come potrà, dopo quanto accaduto a me, usare e strumentalizzare l’articolo 18 il padronato? come una clava probabilmente... Così si sta sgretolando tutto quello in cui ho sempre creduto e per cui ho lottato, i principi secondo i quali ho educato i miei figli, ma questa è una battaglia che voglio portare a termine».


Da La Gazzetta del Mezzogiorno del 9 Marzo 2012